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sabato 29 novembre 2014

Il "mal di scuola" e l'accoglienza.

Post di Gian Maria Zavattaro.

Immagine tratta dal video dei Simple Plan, 
Welcome to My Lyfe, 2004, 
una canzone in cui è espressa la rabbia incompresa 
di un adolescente.
In questo nostro tempo di profondi cambiamenti, di incertezze e di smarrimenti parole come solidarietà e accoglienza sono sempre più sulla bocca di tante persone, come reazione al nostro mondo “liquido” e modalità concrete di promuovere nuovi stili di vita e di relazione interpersonale. Soprattutto nella scuola abitano e trovano terreno questi semi di speranza, cuore della paideia. Il loro significato tuttavia, se dato per scontato e non chiarito,  rischia l’ambiguità di interpretazioni e comportamenti disparati.
Accoglienza è assistenzialismo sentimentale, frutto di mera esperienza emotiva, o un fatto culturale? Atto di debolezza o di forza? Optional paternalistico o dovere che liberamente si sceglie e si adempie? Gesto isolato del primo giorno di scuola o dimensione stabile? Si riduce ad un generico appello etico o richiama fortemente i valori ed il primato dell’etica della responsabilità? E’ imperativo della singola persona – docente, studente, genitore -, è problema collegiale ed istituzionale oppure unità di entrambi?
Se a definire il grado di civiltà di una società - e nel concreto la valenza  inclusiva di una scuola - è la capacità di dare tutela alle persone ed ai gruppi più deboli, parole come solidarietà ed accoglienza devono assumere un significato univoco.  Scriveva De Rita che accoglienza non è solo prestarsi per qualcuno in difficoltà senza lasciarsi sopraffare nel lavoro dalla dimensione burocratica e amministrativa; innanzitutto è una mentalità, un atteggiamento di fondo, una disposizione anteriore all’agire, ospitalità dell’altro nel proprio orizzonte personale e professionale, solidarietà. Non si improvvisa; si costruisce poco alla volta nelle circostanze in cui ci si trova; è cultura, essenzialmente educazione”.

Diciamolo pure: l’accoglienza (come la solidarietà) soprattutto nella scuola è il luogo della sproporzione, della asimmetria, luogo della ”differenza” come “non-indifferenza”, volontà di mettersi a disposizione, di consegnarsi al  “tu” che si incontra. Comporta un’obbligazione senza possibilità di scampo: ”diaconia” (scriveva Lévinas), servizio nel dialogo con l’altro.
Accogliere non è semplicemente fare qualcosa per gli altri, ma educarci ad essere, educarci a diventare pienamente persone, a realizzarci nel dono di sé, perché tutto avviene anzitutto a partire dalla nostra persona. Non è dunque qualcosa che si improvvisa, un’ideuzza da consultorio con cui si pensa di mettere a proprio agio ragazzi e ragazze che durante le ore di lezione sono a disagio.
Penso al “mal di scuola” di tanti studenti, agli inciampi nell’apprendimento”: a quelli attribuibili alla società nel suo insieme, almeno come difficoltà generale a conciliare le esigenze del sistema formativo e del sistema produttivo; a quelli generati da situazioni che lo studente vive all’esterno della scuola (richieste od aspettative esagerate da parte dei genitori, difficoltà economiche della famiglia, cattivi rapporti con i coetanei); agli ostacoli emotivi all’apprendimento (ansia, senso di impotenza, disistima di sé, sfiducia nei riguardi del docente); a quelli generati dai docenti, quando  non mantengono le promesse formative della scuola distribuendo indiscriminatamente la ricchezza del sapere ad alunni che hanno diversa cultura personale e familiare, trattando insomma i disuguali in modo uguale, cosa dappertutto e specie nella scuola semplicemente iniqua, maschera menzognera della giustizia, come ben denunciava don Milani.
Qualche esempio?  I giovani  percepiscono subito la mancanza di attese nei loro confronti, sentono nettamente quando su di loro nessuno ha puntato: reiterati giudizi verbali e non verbali  (“il solito risultato!”, “Anche questa volta non sei riuscito”, “perché non cambi scuola?”) non fanno che consolidare nel giovane la poca fiducia in sé e la percezione di incapacità. 
L’accoglienza in questo caso consiste nell’evitare che il singolo alunno venga pregiudicato da un pensiero “predittivo” (il ben noto ”effetto Pigmalione” per il quale ciò che uno oggi è lo sarà anche nel futuro), escludendo possibilità di cambiamento e di risposte ai suoi bisogni primari (fiducia in sé, sguardo positivo dell’adulto, valorizzazione dei “talenti” della propria persona): evitare cioè che lo studente cada in una “impotenza acquisita” (lasciarsi andare, deprimersi: “Io ce l’ho messa tutta, ho studiato, ma non è cambiato niente”) e costruire invece un ambiente in cui si trovi a proprio agio, si senta protagonista, accetti situazioni che richiedono e permettono la “prova” delle proprie competenze e anche dei propri limiti. 
Perché accogliere significa anche riconoscere il limite di ognuno, a cominciare dal proprio: non esiste accoglienza senza limite e senza uno spazio-tempo ad esso dedicato dove fermarsi, riparare, ricevere attenzione per poi ripartire. L’accoglienza è per prima cosa conoscere se stessi, i propri limiti e le proprie capacità,  per dare il meglio di sé, perché per amare gli altri non si può donare agli altri ciò che non si è.  Per E. Fromm “essere capaci di aver cura di sé è il requisito per poter essere capaci di aver cura degli altri”: c’è differenza tra il dare qualcosa come elemosina e il dare se stessi come amore oblativo.
Questa, a mio avviso, è l’accoglienza nella scuola e forse non solo in essa: non guardare continuamente l’orologio nell’ascolto dell’altro; collaborare ed operare insieme nella realtà complessa interdipendente in cui viviamo, elaborando un progetto condiviso, un metodo frutto della riflessione e dell’esperienza di tutti, confrontandosi, mettendosi in discussione, accettando di cambiare. Accogliere è dunque buttarsi allo scoperto, vivere ed affermare valori alternativi, opponendo all’indifferenza la solidarietà, all’intolleranza l'ospitalità reciproca, al rifiuto del diverso l’inclusione, alla sfiducia dilagante la speranza. E fare entrare e diffondere nella nostra "società liquida" questa mentalità, semplicemente testimoniandola.

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