Vilhelm Hammershøi, Doppio ritratto dell'artista con la moglie |
Ci
sono però, per una qualche felice formula del destino, legami che sono divenuti
nel tempo così intensi, speciali, duraturi, profondi da destare gioia e ammirazione.
Penso a grandi coppie di intellettuali: Raissa e Jacques Maritain, Paulette ed Emmanuel Mounier, Giulia e Giuseppe Capograssi…,
figure che hanno irradiato nel loro stare insieme amicizia, cultura, bellezza.
Ma penso anche ad altre grandi coppie, ancorché meno note.
Ultimamente
mi hanno molto colpito alcune pagine tratte da Il viandante della filosofia, un libro in cui si riporta un’intervista
a Umberto Galimberti. Tra gli altri argomenti, verso la fine del testo, il
filosofo parla della moglie, biologa molecolare, appassionata scienziata, morta
nel 2008, dopo 12 anni di malattia, causata da un tumore. Nel descrivere il suo
rapporto con questa donna Galimberti usa parole commoventi che - in un pensatore
come lui, per nulla incline ad esternare i propri sentimenti (ricordo le pagine
sulla “spudoratezza” come nuovo vizio) - hanno il sapore di una verità capace
di andare oltre i confini della storia privata per consegnarsi universalmente a
ciascun lettore. Quel che emerge, infatti, al di là della personale esperienza,
è il paradigma della moglie, ciò che la moglie dovrebbe essere (o più in
generale ciò che l’altro dovrebbe essere all’interno della relazione a due).
Molti
ingredienti contribuiscono alla realizzazione di un buon rapporto di coppia:
l’attrazione, l’affinità, la reciproca comprensione… Da parte sua Galimberti,
facendo riferimento ai bisogni affettivi più profondi, sintetizza nella figura
del “testimone” - nello sguardo di chi vede e assiste - quello che la moglie ha
rappresentato nella sua vita.
Può sembrare strano. In fondo noi viviamo continuamente sotto gli sguardi degli altri. Tuttavia questi sguardi – che possono essere di tanti segni - sono soprattutto sguardi in-differenti. Il termine in-differenza rimanda etimologicamente a ciò che rimane indistinto o all’atto di chi non distingue. Esso può contenere tante sfumature, spesso negative, aventi a che fare con l’assenza di interesse e di cura verso qualcosa o qualcuno. Ma l’in-differenza non è solo questo. Ci sono sane indifferenze che ci permettono di lasciare spazio all’altro, non invadendone la sfera. Per esempio mi può essere indifferente il modo in cui il mio vicino di casa impiega il suo tempo libero. Quindi dire che gli sguardi degli altri sono indifferenti non significa necessariamente affermare distanza e assenza di interesse.
Esistono
però rapporti in cui non c’è nulla di indifferente nella vita dell’altro e sono
quelli nei quali si è scelto di condividere l’esistenza secondo una modalità
affettiva che, per sua natura, non può essere estesa, perché dipende da una
libera scelta e perché implica un’intensità e una reciprocità per molti versi esclusiva.
Quando Galimberti identifica la moglie con la figura del “testimone” non intende
quindi riferirsi ad uno sguardo qualsiasi - non necessariamente indifferente
nel senso comune del termine - ma a “quell’unico sguardo” per il quale la
propria vita ha un valore in ogni suo aspetto e momento, quell’alterità cui solo
è possibile raccontare se stessi.
E
la cosa è così vera e profonda da poter sostenere l’analogia con la
presenza/assenza teologica: Dio, per il credente, è il grande spettatore ai cui
occhi ogni momento dell’esistenza ha significato e valore. E, infatti, il parallelismo
giunge fino a confrontare la “disperazione”, che accompagna la morte della
moglie, con quella che l’uomo può provare nell’assenza di Dio (di pascaliana
memoria).
Ed
ecco la pagina bellissima di Galimberti, un dono raro, da maneggiare con cura e
delicatezza:
«Ero molto innamorato di mia moglie, che è venuta a mancare due anni fa […]. Era una figura eccezionale, slovena, della comunità slovena di Trieste. Ci eravamo conosciuti nel 1967, vivendo poi insieme per 42 anni. Quando se n’è andata ho capito di aver vissuto tutta la vita per lei […]. La mia storia aveva un valore solo quando la potevo raccontare a qualcuno, mentre adesso, finito questo racconto, non so più perché devo fare le cose. Sono in una fase di totale disorientamento: non so perché si devono fare le cose, non so perché si devono scrivere libri, non so più nulla. Non so più perché sono al mondo. […]
Severino, tempo fa, dopo che gli era morta la moglie, mi disse: “Adesso finisco
l’ultimo libro e poi me ne vado anche io”. Lo capisco benissimo. Perché si ha
proprio questa sensazione di aver perduto il testimone della propria vita,
quasi che la vita potesse accadere soltanto sotto quello sguardo. In quella circostanza ho capito anche che
cosa voglia dire Dio: non nel senso della speranza o dell’eternità, ma proprio
per questo fatto di vivere sotto lo sguardo di qualcuno. In definitiva è la
“disperazione” di Pascal, quel guardare il cielo e constatare che l’immenso
universo e quegli astri lassù “non ti conoscono”. L’indifferenza della terra,
che è il residuato di quando se ne va il tuo testimone».
Vilhelm Hammershøi, Riposo |
Vilhelm Hammershøi, Raggi di sole |
Può sembrare strano. In fondo noi viviamo continuamente sotto gli sguardi degli altri. Tuttavia questi sguardi – che possono essere di tanti segni - sono soprattutto sguardi in-differenti. Il termine in-differenza rimanda etimologicamente a ciò che rimane indistinto o all’atto di chi non distingue. Esso può contenere tante sfumature, spesso negative, aventi a che fare con l’assenza di interesse e di cura verso qualcosa o qualcuno. Ma l’in-differenza non è solo questo. Ci sono sane indifferenze che ci permettono di lasciare spazio all’altro, non invadendone la sfera. Per esempio mi può essere indifferente il modo in cui il mio vicino di casa impiega il suo tempo libero. Quindi dire che gli sguardi degli altri sono indifferenti non significa necessariamente affermare distanza e assenza di interesse.
Vilhelm Hammershøi, Interno con giovane donna |
Vilhelm Hammershøi, Interno |
«Ero molto innamorato di mia moglie, che è venuta a mancare due anni fa […]. Era una figura eccezionale, slovena, della comunità slovena di Trieste. Ci eravamo conosciuti nel 1967, vivendo poi insieme per 42 anni. Quando se n’è andata ho capito di aver vissuto tutta la vita per lei […]. La mia storia aveva un valore solo quando la potevo raccontare a qualcuno, mentre adesso, finito questo racconto, non so più perché devo fare le cose. Sono in una fase di totale disorientamento: non so perché si devono fare le cose, non so perché si devono scrivere libri, non so più nulla. Non so più perché sono al mondo. […]
Vilhelm Hammershøi, Interno con Ida su una sedia bianca |
Sul filo della relazione microcosmo - macrocosmo corre un legame che stringe non solo l'universo della vita individuale ma anche la " galassia " del nucleo familiare. In questo contesto, pienamente compreso dalla filosofia greca, prende forma " l'assenza/presenza di Dio ". Il tema della " teologia negativa ", il "deus absconditus" di Pascal, il pensiero di Simone Weil ne sono testimoni. Galimberti,noto non credente avverte qui la vibrazione spirituale.
RispondiEliminaCon Tommaso d’Aquino sono convinto che di Dio si possa dire, se qualcosa si può dire, “quomodo non sit” piuttosto che “quomodo sit”. Ma c’è un pensiero di S. Weil - lo riporto a memoria – che ancor più mi colpisce: “Per sapere se uno è credente, non dobbiamo osservare come parla di Dio, ma come parla al mondo”. Se poi il mondo è emblematicamente rappresentato dalla propria moglie in veste di “testimone”, allora mi pare di intravedere nella “vibrazione spirituale” di Galimberti il Deum absconditum, la Sua presenza-assenza, ed insieme la conferma che la fede non è solo e tanto libera risposta all’appello di Dio, ma Suo imperscrutabile dono di grazia.
EliminaBellissimo e intenso l'amore che li lega - va.
EliminaMa si sente che manca la speranza nell'eternita' inoltre si sente che vorrebbe averla
Si avverte dalla malinconia che tesse queste meravigliose parole.
e se fosse smarrimento da una via da decenni percorsa?
EliminaMeraviglioso… Chi vuol comprendere comprenda :-), che significa: non a tutti è concessa questa grazia :-).
RispondiEliminaSì, per molti versi “trovare il proprio testimone” credo sia una grazia, un dono che va molto al di là di possibili “meriti” o di consapevoli scelte, condizionato com’è dalla casualità dell’incontro, dalla sviluppo di una storia e da molte altre condizioni che non dipendono soltanto dalla libertà individuale.
EliminaBellissima intervista a Galimberti su questo tema in "Uomini e Profeti". Purtroppo non ne ricordo la data.
RispondiEliminaLa puntata del 5 Giugno 2016
EliminaGrazie per aver ricordato la trasmissione della Caramore che noi seguiamo costantemente e consideriamo un appuntamento importante nella nostra settimana.
EliminaChe bella testimonianza...
RispondiEliminaSì, Umberto Galimberti è voce da ascoltare. I suoi libri – oltre alle interviste – sono ricchissimi di spunti e di riflessioni che scavano nella profondità e aiutano a comprendere il presente in cui viviamo.
EliminaBella questa continuità con il post precedente. La figura della testimonianza ben si adatta a Hammershoi e alla sua donna di spalle, non è l'incontro o lo scontro, è testimone dell'altro anche se separato da sè. Bellissimo il doppio ritratto.
RispondiEliminaGrazie Gianni per la sua sensibilità pittorica. In effetti il doppio ritratto rende bene l’idea dell’essere l’uno testimone dell’altro (nella stessa stanza) rimanendo diversi, mantenendo intatta la propria alterità (nell’essere entrambi di spalle, l’uno rispetto all’altro).
EliminaConoscevo la pagina di Galimberti che mi è cara da tempo e rende compiutamente il valore umano di una presenza culturale così profonda e significativa in questo nostro tempo, tanto critico da apparire a volte disperante.
RispondiEliminaGrazie per il vostro impegno.
Grazie a lei per la condivisione di orizzonti culturali e di pensieri.
EliminaGrazie del post, davvero interessante. Un caro saluto a tutti e due.
RispondiEliminaGrazie a lei, di cuore.
EliminaBellissimo post.... Mi viene in mente il "lungo addio" di mia madre....
RispondiEliminaRicordo il giorno in cui cominciò.. un giorno d'estate quando morì mio padre.
Le mancò il "testimone"....
Buona domenica co un caro saluto.
Bellissimo post.... Mi viene in mente il "lungo addio" di mia madre....
RispondiEliminaRicordo il giorno in cui cominciò.. un giorno d'estate quando morì mio padre.
Le mancò il "testimone"....
Buona domenica co un caro saluto.
Cara nele nele, anche per mia mamma è stato così come hai detto tu per la tua: ha cominciato ad andarsene con la morte di papà, ha iniziato da quel momento il suo “addio” a noi e il suo riunirsi a nostro padre. Un caro saluto anche a te.
EliminaMio marito è morto due anni fa, aveva 50 anni. Sono troppo giovane per cominciare a morire (anche perché abbiamo tre figli che stanno crescendo). Capisco perfettamente cosa intenda dire Galimberti quando dice che viene a mancare "quello" sguardo e quel "avere da raccontare qualcosa a qualcuno". A me, però, non è capitato di non trovare più il senso nel fare le cose: continuoil dialogo con mio marito ed è come se lui mi vedesse da un'altra parte, con un altro sguardo. E vedo il suo sorriso.
EliminaGrazie per la sua toccante testimonianza.
EliminaRibadisco quanto detto in un commento precedente: il vostro blog è un gioiello. Il vero compagno/a della propria vita è davvero: "quell’unico sguardo” per il quale la propria vita ha un valore in ogni suo aspetto e momento, quell’alterità cui solo è possibile raccontare se stessi." Grazie per questa bellissima pagina, di cui farò tesoro.
RispondiEliminaGrazie ancora. Sì, il titolo del post è “la moglie”, ma il discorso si estende e coinvolge la coppia (compagno o compagna che sia).
EliminaVivendo con un filosofo, posso capire benissimo ancora di più cosa possa io rappresentare per mio marito che mi ha sempre considerata la sua migliore amica e testimone appunto della sua vita!
RispondiEliminaGrazie per il suo contributo e per la condivisione della sua personale esperienza su questo blog.
EliminaBELLISSIMO E INTERESSANTISSIMO BLOG, SONO VENUTA GIA' DUE VOLTE PER COPIARE...A VOSTRO NOME E LINK S'INTENDE...potete verificare,
RispondiEliminahttp://www.neldeliriononeromaisola.it/2018/11/249313/
Grazie del gradito commento e della "onestà" del rimando alla nostra pagina. Complimenti per il suo ricchissimo blog! Saluti.
RispondiEliminaQuesto commento è stato eliminato dall'autore.
RispondiEliminaPer me Galimberti è da sempre un faro nel mio esistere. Anche se poi resta difficile vivere facendo proprio un modo che si allontana di molto da quello cristiano, che culturalmente ci contraddistingue. Perché figli di questa cultura, che lo si voglia o no. Ma mi ha sorpreso questo aspetto del professore, perché tra i suoi scritti sull'amore, ho sempre inteso la relazione con l'altro, qualcosa da vivere con una certa maturità. Mantenendo la propria individualità, senza "perdersi", o ancor di più, "annullarsi" nell'altro. Per evitare appunto di ritrovarsi "smarriti" o vuoti, una volta che l'altro, per un qualsivoglia motivo, non ci sia più. Quindi mi spiazza questa risposta di Galimberti. Da un lato mette in crisi questo mio lavoro di ricerca nella mia vita di coppia, per uno scambio maturo fra due ben definiti individui (che si amano comunque). Dall'altro, però, mi fa teneramente riscoprire il lato umano che credo sia giusto liberare e vivere, pur nella prospettiva tragica che lo sottende. Ma che resta comunque il modo migliore, più intenso e meraviglioso, di vivere l'Amore: abbandonandosi e perdendosi nell'altro. Assumendosene tutti i godimenti, ma anche i rischi. Grazie x avermi dato, con questo scritto, l'occasione di una bella e sana riflessione.
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