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lunedì 2 settembre 2013

Dilemma Siria: se e come intervenire


“Non abbiamo il diritto di escludere la guerra ad ogni costo, ma dobbiamo salvare la pace e l’onore con tutte le forze e con ogni impegno.
Si deve rischiare tanto la pace quanto la guerra…
Lottiamo come disperati contro la guerra, non accordiamole neppure un briciolo di complicità, ma non arriveremo ad esorcizzarla se con come si scongiura una malattia:
presentandole un’anima sana in un corpo sano”
(E. Mounier).


La teoria della guerra giusta forse ha esaurito la sua funzione storica: non solo è risultata in questi anni  inutile (v. Iraq, Afghanistan …)  ma pericolosa  in quanto di fatto  propone una stretta analogia  tra lo stato - imputato  che semina la morte e gli stati - giudici che   lo  perseguono, a loro volta seminando morte.  La disponibilità degli armamenti  e di potenziale bellico ha inevitabilmente come corrispettivo lo schema amico-nemico, il risveglio di istinti aggressivi e di reazioni  incontrollabili.

E’ possibile allora l’alternativa  di detronizzare il potere armato siriano senza fare uso delle armi?

Sinceramente non vedo in questo momento possibilità di interventi non violenti che possano assicurare soluzioni soddisfacenti ed esiti certi. Tuttavia né possiamo stare zitti né possiamo imporre altra violenza. Forse può illuminare i decisori politici, e noi tutti,   l’esperienza  sofferta, tragica e mortale,  di migliaia e migliaia di persone, di poveri, di innocenti  sottoposti alla furia omicida di chi non si fa scrupolo nell’uso delle armi chimiche. La risposta forse può venire solo dal non dimenticare il sangue delle  vittime della violenza  o  dei caduti tra le torture della prigione dei carnefici di turno. Allora il cosiddetto pacifismo assume il volto di una resistenza che coinvolge, impegna ed accomuna, in ogni paese, tutte le persone che credono veramente nella pace. In altre parole  deve esser chiaro che non tutti hanno il diritto di rimproverare l’uso della violenza. Questo  diritto spetta unicamente  ai puri testimoni non violenti, ai veri facitori di pace.  Se infatti tutti coloro che si predicano  pacifisti, tutti, senza eccezione, rifiutassero decisi e compatti ogni collaborazione nelle fabbriche delle armi  o  di materiale strategico,  nei quadri degli eserciti e delle polizie oppressive del mondo,  nell’eleggere in parlamento i propri rappresentanti, nella ricerca scientifica a scopi militari,  nelle operazioni  economiche a tutti i livelli in cui si opprimono i molti per arricchire i pochi, nelle chiese di ogni fede e religione,   nelle scuole, in ogni luogo pubblico, sarebbe ancora possibile una guerra?

Oggi gli strumenti di distruzione sono talmente forti che qualsiasi pretesa di accomodamento diventa illusoria insieme con la pretesa di regolamentare l’imponderabile e di amministrare giuridicamente le modalità di distruzione dell’umanità.

 Forse è  il momento  propizio e urgente del cambiamento. Per chi rifiuta eticamente la guerra ciò che deve cambiare è la strategia concettuale: si deve disarmare la ragione armata. E’ difficile se non impossibile prevedere  quali e quante siano le prospettive di successo di questa opposizione e  ribellione  morale. I metodi di resistenza politica contro l’ingiustizia e la violenza, l’azione di disobbedienza civile contro l’esercizio illegittimo del potere forse sono  l’unica via per  la soluzione del futuro non  utopico.  Non so quale altro modo vi possa essere oggi, ispirato al benessere di tutti e al bando di  ogni violenza, “quella del pugno, della lingua e del cuore” (M. L. King).

 

Compianto


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