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martedì 7 marzo 2017

Il narratore di Walter Benjamin.

A partire da un piccolo ed esemplare racconto, il filosofo tedesco Walter Benjamin (1892-1940) introduce nel segreto fascino della narrazione.
🖊 Post di Rossana Rolando
🎨 Tutte le immagini riproducono opere risalenti alla fase pre astrattista di Wassily Kandinsky (per una presentazione di essa si può cliccare qui: Wassily Kandinsky e la fiaba).

Wassily Kandinsky, 
L'elefante (1908)
«Quando il re egiziano Psammenito fu vinto e preso prigioniero dal re dei Persiani Cambise, questi si propose di umiliarlo. Ordinò di collocare Psammenito sulla via dove si sarebbe svolto il trionfo persiano, e fece in modo che il prigioniero vedesse passare la figlia in vesta da schiava, mentre si recava al pozzo con una brocca in mano. Mentre tutti gli Egiziani levavano pianti e grida a quella vista, il solo Psammenito rimase muto e immobile, gli occhi inchiodati al suolo; e quando, poco dopo, vide il figlio condotto a morte nel corteo, rimase altrettanto impassibile. Ma quando vide passare fra i prigionieri uno dei suoi servi, un uomo vecchio e impoverito, allora si batté il capo coi pugni e mostrò tutti i segni del più profondo dolore» (Walter Benjamin, Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in Angelus Novus, Einaudi, 1962, p. 254).

Wassily Kandinsky, 
Domenica, Russia antica (1904)
Questo racconto riportato da Erodoto nel terzo libro delle sue Storie, ripreso da Montaigne e raccolto infine da Benjamin nel suo breve e intenso saggio sulla narrazione “produce stupore e riflessione” (p. 255) ed ha il potere - dopo millenni - di suscitare curiosità e interrogazione nel pensiero.
Perché il faraone rimane muto di fronte all’umiliazione e alla condanna dei propri figli, mentre piange dinnanzi alla prigionia di un suo vecchio servo impoverito? Montaigne propone una sua esegesi: «Poiché traboccava già di cordoglio, bastava una piccola aggiunta perché quello spezzasse i suoi argini».
Wassily Kandinsky, 
Montagna blu (1908-9)
E lo stesso Benjamin presenta diverse altre possibili interpretazioni: il re non si commuove di fronte al destino dei propri figli perché essi condividono, in quanto familiari, il suo stesso destino, mentre il domestico avrebbe dovuto rimanerne estraneo; oppure ancora: il servo mette in scena e rappresenta in modo commovente – come un attore a teatro – il dolore che rimane muto nell’esperienza intima della vita; infine: il faraone, vedendo il servo, allenta la sua tensione e lascia scorrere quel pianto prima accumulato e silenziosamente concentrato…
L’attenzione di Benjamin – all’interno del suo saggio – non è tanto rivolta al contenuto del racconto, quanto piuttosto alla forma. La narrazione è ciò che Benjamin assume come centro del suo discorso. Mentre l’informazione esaurisce immediatamente il suo effetto una volta data, la narrazione dura, perché contiene un messaggio sapienziale: una morale, un’istruzione, una norma di vita, un consiglio per chi ascolta (cfr. p. 250). Se l’informazione deve essere plausibile e immediatamente controllabile, la narrazione può attingere al meraviglioso, al mitico, all’immaginario. 

Wassily Kandinsky, 
Donne verdi (1907)
La molteplicità interpretativa del racconto e la sua “ampiezza di vibrazioni” (p. 253) non costituiscono mai una povertà o una ambiguità della comunicazione - come potrebbe essere per una semplice informazione - ma corrispondono piuttosto a una ricchezza di valore spirituale che non si lascia esaurire in un solo significato.
Non è un caso che il saggio Il narratore sia dedicato a Nicolaj Leskov, scrittore russo di racconti, con una sensibilità religiosa simile a quella di Dostoevskij, poiché proprio la parola “sacra” ha questo carattere rivelativo per chi ascolta. Nel Talmud babilonese (b.Sanhedrin, 34a.) si legge: «Un maestro della scuola di Rabbi Ishmael ha insegnato: “Non è forse così la mia parola: come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia? (Ger 23, 29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure da un solo versetto scaturiscono sensi molteplici».
Wassily Kandinsky, 
Paesaggio con torre (1908)
Per Benjamin l’arte del narrare è legata alla trasmissione orale di un’esperienza “comunicabile” (p. 248) che si sviluppa lungo il viaggio dell’esistenza, attingendo alla memoria di un vissuto rielaborato o all’attesa di mondi inesplorati, sconosciuti e nuovi (pp. 248-249).  Questo significa che laddove l’esperienza si fa incomunicabile (perché è troppo dolorosa, come quella dei reduci del primo conflitto mondiale, citata da Benjamin, p. 248), non ci può essere narrazione, ma solo documentazione.
L’arte del narrare, secondo l’autore del saggio (che risale al 1936), è ormai sulla via del tramonto, sostituita dall’informazione e ancor prima dal romanzo: quest’ultimo non ha la forma dell’oralità, affidato com’è alla parola stampata; ha un inizio e una fine e non può quindi continuare come avviene per una storia vissuta; ancora e infine non dispone dell’autorità del racconto che consegna un’esperienza personale, salvandola così dalla “potenza della morte”.
“Nessuno – dice Pascal – muore così povero da non lasciare nulla in eredità” (p. 263). La trasmissione dei ricordi e la capacità di fare della vita - intreccio di esperienza propria e altrui - un racconto sono i contrassegni del narratore, figura paragonabile a quella del maestro e del saggio che ha lasciato, nel nostro tempo spezzato e disincantato, l'esile traccia della nostalgia. 

Wassily Kandinsky, 
Coppia a cavallo (1906)
📝 Nota.
Volutamente, in questo articolo, non si è fatto riferimento alla riproposizione de Il narratore, curata e commentata da Alessandro Baricco per Einaudi nel 2011, preferendo proporre una lettura del tutto svincolata da tale discussa riedizione.

6 commenti:

  1. Un giorno ricco!

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    1. "Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure da un solo versetto scaturiscono sensi molteplici...": ricchezza racchiusa in ogni autentico racconto. Grazie Gianni per la tua vigile presenza e interazione.

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  2. Benjamin, che sappiamo contrario alla " riproducibilità tecnica", vuole recuperare un senso ancestrale della parola e sceglie la narrazione. Le inter relazioni dicono che , provenienti dal mondo ebreo, risente di certe fonti, ha alle sue spalle fonti sapienziali. Nella tradizione filosofica, azzardo ad aggiungere, Platone aveva preferito il mito ( e in seconda battuta il dialogo ) per affrontare i temi dell'Assoluto, del Bene. Famosa la sua diffidenza verso la scrittura, sulla scia di Socrate.... e su certi temi ci sono "libri non scritti".
    La chiave di volta, come dice Rossana, sondando il parere di Pascal, è il "tesoro nascosto", il piano incomunicabile, descrittivamente, razionalmente, geometricamente, dello Spirituale.
    Ancora a lungo si può ragionare sullo spunto....ad esempio : direi che una certa tendenza a concepirà la storia come narrazione si basa sulla
    qualità, irraggiungibile della narrazione.
    Infine - ci rincuora ciò- la menzione al quid ( la traccia ) che resta del nostro passaggio esistenziale, compreso e trasmesso dalla narrazione.

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    1. Grazie Rosario, hai colto, come sempre, punti cruciali: per esempio il primato dell’oralità sulla scrittura, relativamente al racconto, che Benjamin sottolinea nel saggio e che io ho lasciato piuttosto implicito.

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  3. Gentile Rossana, i suoi post mi schiudono mondi preziosi non ancora esplorati. Grazie di cuore.

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    1. Ne sono davvero onorata. Poter comunicare mondi preziosi a chi sa coglierli ed apprezzarli è per me un dono senza prezzo.

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