“Solo l’uomo che attua nella sua vita integrale,
con tutto
il suo essere, le relazioni a lui possibili,
ci aiuta
a conoscere veramente l’uomo”.
“La libertà senza assunzione di responsabilità è una patetica
“La libertà senza assunzione di responsabilità è una patetica
farsa”.
Martin Buber.
Martin Buber nasce a
Vienna nel 1879. Affidato ai nonni nel 1882, si trasferisce in Ucraina, dove
compie i primi studi, entrando in contatto con le comunità chassidiche.
Nel 1896 è a Vienna, poi a Lipsia, Berlino, Basilea e Zurigo,
dove nel 1904 consegue il dottorato in filosofia con una tesi su J. Bohme
e Nicola Cusano. Si sposa. Si avvicina al movimento sionista. Nel 1923
pubblica “L’io e il tu” ed inizia ad insegnare presso l’Università di
Francoforte. Lavora con Franz Rosenzweig sulla traduzione in tedesco della
Bibbia ebraica che, dopo la morte dell’amico, continuerà e terminerà nel 1961.
Nel 1927 visita Gerusalemme, ritorna in Europa, prendendo le distanze dal
sionismo. Resiste al nazismo fino al 1938, quando si trasferisce ad insegnare
sociologia presso l’Università Ebraica di Gerusalemme. Si impegna nel
dialogo tra ebrei ed arabi, collabora con numerose riviste (tra cui Esprit),
pubblica in particolare “Mosè”, “Il principio dialogico”, “Il
problema dell’uomo”, “L’eclissi di Dio”. Muore a Gerusalemme nel 1965.

Anche Buber vive il suo tempo come “tempo dei viandanti”, di coloro che non hanno un tetto sicuro e non possiedono “neppure i quattro picchetti per innalzare una tenda”. In questo contesto si pone il dialogo: “Io non ho una dottrina. Io indico qualcosa. Indico la realtà, indico qualcosa nella realtà che non è stato visto o lo è stato troppo poco. Io prendo per mano colui che mi ascolta e lo porto alla finestra. Apro e indico fuori. Non ho una dottrina ma porto avanti un colloquio”. La cifra del dialogo è la responsabilità: “completa presenza della realtà alla quale si partecipa”, apertura del rapporto con l’altro, nell’orizzonte della pluralità e diversità.
Il dialogo implica una modalità
di relazione intesa come impegno attivo, accettazione sempre rinnovata di un
dono che mi supera e mi trascende, il dono dell’altro, al quale io debbo
rispondere. L’altro è una presenza che “mi rivolge la parola da una
regione indipendente rispetto alla mia persona” e che “mi chiede qualcosa che
mi ha affidato e che a me spetta custodire”: una presenza attraverso la quale
mi viene detto che, nonostante tutto, esiste il senso e che mi attesta
che “non c’è altra pienezza fuori di quella delle ore mortali
ricche di appello e di responsabilità”.
La responsabilità per
l’altro uomo e di fronte all’altro uomo trova il suo inveramento nella
responsabilità di fronte alla trascendenza, “il cordone ombelicale che ci lega
alla creazione”. L’uomo è costituito nella sua libertà affinché possa
rispondere a Dio: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio della
rivelazione che sceglie il popolo di Israele come interlocutore privilegiato
nella sempre attuale promessa della redenzione come momento messianico, momento
di pienezza del dialogo.
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Martin Buber, L'io e il tu. |
La radicale apertura del
dialogo all’imprevedibile novità dell’altro, attraverso la quale divento me
stesso, pone con chiarezza l’esigenza della solitudine e del silenzio che
appaiono indispensabili per la relazione autentica. La solitudine è “luogo della
purificazione”, accoglienza di sé, premessa per l’ascolto e la recettività
dell’altro, luogo in cui il desiderio dell’apertura all’altro è coltivato e
sempre rinnovato; non è isolamento come sterile ripiegamento su di sé,
non è negazione di apertura all’altro, ma la condizione per poter entrare nel
dialogo e nella comunicazione, per manifestarsi all’altro e con l’altro. Il
silenzio comunicativo è “colloquio che non ha bisogno di parole e nemmeno
di un gesto”; non è assenza di comunicazione ma la sua vera
condizione.
Se “ogni vita affettiva è un incontro”, la più alta forma di relazionalità è l’amore: unico, personale, sincero, fedele, fiducioso, aperto non statico, dinamico ed esigente, “ad un tempo essere-se stesso e donazione di se stesso”, responsabile perché “risponde”, si lascia interpellare dall’altro e rende conto davanti all’altro.
Relazione dialogica
eccezionale è la relazione educativa che crea un coinvolgimento reciproco
il cui fondamento è l’esperienza della “totale presenza” e della “totale
realtà” dell’altro. La relazione educativa non è chiamata a formare “il
cittadino o il gentleman o l’eroe”, ma ad aiutare i giovani a raggiungere
ciascuno la propria unità e coerenza spirituale, ad aprirsi all’incontro con
gli altri e con il mondo, nel travaglio della propria esistenza quotidiana.

Lo stesso
Buber per generazioni di giovani fu maestro pieno di speranza,
profondamente convinto che “l’educatore non è esattamente il professore”.
Costantemente aperto a cogliere il “nuovo”, il mai detto, l’evento
irripetibile, ogni giovane vita era, ai suoi occhi, una nuova grazia per
la grande avventura dell’umanità.